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SZYMBORSKA E LA “MAPPA” COME BUGIA

di Giulia Bolzan


ITA/ENG

Translation of the author


Maria Wisława Anna Szymborska, 1923 - 2012

Nella raccolta intitolata Basta così, edita da Adelphi nel 2012, la poetessa polacca Wisława Szymborska dedica una poesia ad un luogo geografico non precisato, seppur reale, senza nominare città, continenti, confini precisi. Questo non-luogo che sulla carta trova indicazioni orientative tramite colori e linee sembra, nonostante tutto, essere un rifugio, un posto sicuro in cui riporre la nostra fiducia, compresa quella della poetessa in questione. In fondo, chi almeno una volta non ha puntato il dito indice sulla superficie di un mappamondo, anche solo per avere la sensazione di riuscire a viaggiare con la mente e la fantasia tra paesaggi e popoli così distanti eppure così vicini a noi, al nostro paese in quanto parte del pianeta Terra. Così come quando si apre una cartina geografica, si studia o si analizza a scuola, e non solo, colpisce il fatto che ci si ritrova un poco smarriti e soli nell’intendere la vastità d’un mondo che esiste, è proprio lì davanti ai nostri occhi eppure ne conosciamo solo alcuni anfratti, alcune località, alcune specificità. Lo sguardo spazia in lungo e in largo, si abitua a cogliere segni e legende che guidano la conoscenza da noi verso l’altrove, forse rendendoci per pochi istanti pienamente convinti e sicuri di poter padroneggiare direzioni, dimensioni e peculiarità che fino a poco tempo prima non eravamo consci di poter “gestire”. Qui la poesia della Szymbroska ci illumina e ci viene incontro con la sapienza e allo stesso tempo la lungimiranza delle sue parole accorte, precise eppure evocative, così leggiamo:


Amo le mappe perché dicono bugie. Perché sbarrano il passo a verità aggressive.

SZYMBORSKA, Basta così, Milano, Adelphi, 2012.



Quale realtà è dunque più misteriosa e incerta? La nostra, quella dell’io, dell’interiorità oppure quella di una mappa? Queste sembrano essere le domande della poetessa, che quasi rivolgendosi a se stessa, ci induce a mettere in dubbio ciò che sta dentro la mappa, non sopra e non sotto di essa, infatti, vi sono cunicoli, ombre, dubbi, verità. La magia creata dalla sua lirica è qui duplice e tenterò di rivelarla senza essere invadente ma nemmeno evasiva (per non far perdere valore e incanto al testo): spesso gli artisti creano delle visioni per poter sopperire ad alcune mancanze, ad alcune manifestazioni di tipo sensoriale e percettivo che dovrebbero appartenere alla realtà; così succede che questa loro non-esperienza del reale faccia scaturire idee, sogni, immagini, che poi traducono in un linguaggio (pittorico, musicale, fotografico, plastico, ecc…) capace di prendere vita trasformandosi in opera d’arte. Quella che la poetessa nella lirica La mappa descrive, è una (appunto) mappa che va via via costituendosi tramite le sue parole, i suoi versi, delineando monti e valli, corsi d’acqua di varia portata, alberi di modeste dimensioni, distanze e confini non ben precisati, un est e un ovest, un sopra e un sotto, di cui sappiamo l’esistenza in base al riferimento dato dalla linea dell’equatore. Sorprendentemente, tutto ciò pare "piccolo, vicino, alla portata". La mappa è gradualmente creata dalla poetessa coi suoi versi, quasi prosastici, come a sottolineare ulteriormente il valore descrittivo della superficie piana in questione.


Il secondo punto che mi preme sottolineare consiste invece nella cruciale differenza tra “guardare” e “vedere”, magnificamente trattata dalla scrittrice e saggista Siri Hustvedt in Vivere, pensare, guardare (Einaudi, 2012). Nel capitolo dedicato agli Appunti sul vedere le riflessioni e i dati riportati spaziano dalla percezione dei colori a quella, più soggettiva, della bellezza, passando dalle fotografie alle immagini di due corpi, agli sguardi dentro ad altri sguardi e mi ha colpita particolarmente l’affermazione: «Il riconoscimento è sentito, non pensato», che fa riferimento in particolare agli episodi in cui per strada ci sembra di riconoscere il volto di qualcuno a noi familiare, ma poi è in realtà quello di una persona a noi sconosciuta e il processo di riconoscimento si accende e sparisce ad una velocità notevole. Questo per suggerire che l’osservazione che si fa di qualcosa, ma anche di qualcuno, pone in gioco una multidimensionalità e una serie di sfaccettature, per così dire, molto “umane”, che richiamano alla coscienza, alla mente ricordi, sensazioni, stati d’animo e suggestioni mai emerse prima. Ecco allora che la mappa disegnata dalla Szymborska nei suoi versi conta silenzi, assenze, umori che vanno ben oltre l’apparenza, l’evidenza e la definizione delle cose, dei luoghi che intimamente ci appartengono o che sfuggono invece alla nostra persona. Nel finale del componimento la prospettiva si ribalta sottilmente, dimostrando infatti che i due mondi che stiamo “leggendo”, in fondo, non si corrispondono:


Perché con indulgenza e buonumore sul tavolo mi dispiegano un mondo che non è di questo mondo.

 


SZYMBORSKA AND THE “MAP” AS A LIE


In the collection of poetry entitled Enough like this, published by Adelphi in 2012, the Polish poet Wisława Szymborska dedicates a poem to an unspecified geographical place (a real place), without naming cities, continents, precise borders. This non-place which on paper finds guidance through colors and lines seems, despite everything, to be a refuge, a safe place to place our trust, including that of the poet in question. After all, who at least once has not pointed a finger at the surface of a globe, even if only to have the feeling of being able to travel with the mind and imagination among landscapes and peoples so distant yet so close to us, to our country as part of the planet Earth. Just as when you open a map, study or analyze at school, and beyond, it is striking that you find yourself a little lost and alone in understanding the vastness of a world that exists, it is right there in front of the our eyes and yet we only know some ravines, some places, some specificities. The gaze sweeps far and wide, it gets used to grasping signs and legends that guide knowledge from us to elsewhere, perhaps making us for a few moments fully convinced and sure of being able to master directions, dimensions and peculiarities that until recently we were not aware that we could "manage". Here Szymbroska's poetry enlightens us and comes to meet us with the wisdom and at the same time the farsightedness of her shrewd, precise and yet evocative words, as we read in her poetry The Map:


I like maps, because they lie. Because they give no access to the vicious truth.

Which reality is therefore more mysterious and uncertain? Ours, that of the self, of the interior or that of a map? These seem to be the questions of the poet, who almost turning to herself, leads us to question what is inside the map, not above and not below it, in fact, there are tunnels, shadows, doubts, truths. The magic created by his lyric is here twofold and I will try to reveal it without being intrusive but not evasive: artists often create visions in order to make up for some shortcomings, some sensory manifestations and perceptive that they should belong to reality; so it happens that their non-experience of reality gives rise to ideas, dreams, images, which they then translate into a language (pictorial, musical, photographical, plastical, etc...) capable of coming to life by transforming itself into a work of art. What the poetess in the lyric The map describes, is a map that gradually constitutes itself through her words, her verses, outlining mountains and valleys, streams of various flow, trees of modest size, distances and boundaries not well defined, an east and a west, an above and a below, of which we know the existence based on the reference given by the equator line. Surprisingly, all of this feels "small, close, within reach". The map is gradually created by the poet with her verses, almost prose, as if to further underline the descriptive value of the flat surface in question.


The second point that I would like to underline consists instead of the important difference between “looking” and “seeing”, magnificently treated by the writer and essayist Siri Hustvedt in Living, thinking, watching (Einaudi, 2012). In the chapter dedicated to Notes on seeing the thoughts and the data reported range from the perception of colors to the more subjective one of beauty, passing from photographs to images of two bodies, to looks inside to other looks and the statement struck me particularly: "Recognition is felt, not thought", which refers in particular to episodes in which on the street we seem to recognize the face of someone familiar to us, but then it is actually that of a person unknown to us and the process of recognition lights up and disappears at a remarkable speed. This is to suggest that the observation made of something, but also of someone, brings into play a multidimensionality and a series of facets, so to speak, very "human", which recall memories, sensations, states of soul and suggestions never emerged before. Here then is that the map drawn by Szymborska in her verses counts silences, absences, moods that go far beyond the appearance, the evidence and the definition of things, of the places that intimately belong to us or that escape our person instead. At the end of the poem the perspective is subtly overturned, demonstrating in fact that the two worlds we are "reading", basically, do not correspond:


Because great-heartedly, good-naturedly they spread before me a world not of this world.


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