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PROPONE PEREIRA - ILLICH, DICHIARAZIONE SUL SUOLO

IT/EN

note a cura di Francesco Zevio


Ivan Illich
Ivan Illich

dichiarazione condivisa, abbozzata in Hebenshausen, Germania, il 6 Dicembre 1990 

in collaborazione con Sigmar Groeneveld, Lee Hoinacki e altri amici.


Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegniamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo – la sua coltivazione e il nostro legame con esso – è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale.


Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo.


Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso, all’abilità artigianale, all’arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra, l’ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra il suolo e l’essere umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo a punto i concetti che ci permetterebbero di porre in relazione la virtù con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal controllo pianificato del comportamento su un pianeta condiviso.


I nostri legami col suolo – le relazioni che limitavano l’azione rendendo possibile la virtù pratica – sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui, volenti o nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le persone in unità intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi della scarsità [1].


Gli usi civici e l’arte di abitare sono a mala pena immaginabili da chi è schiavo dei servizi pubblici e alloggia in garage ammobiliati. In questo contesto il pane è stato ridotto a mero genere alimentare, se non a calorie o a fibre. Dopo che il suolo è stato avvelenato e cementificato, parlare di amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialità appare come una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto casuale tra veicoli, uffici, prigioni e hotel.


Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non più. Il suolo su cui la cultura può crescere e il grano essere coltivato svanisce alla nostra vista allorché viene definito nei termini di sottosistema complesso, settore, risorsa, problema o “impresa agricola”, come per lo più accade nelle scienze agrarie. Come filosofi, proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che predicano il rispetto della scienza ma promuovono il disinteresse per la tradizione storica, le attitudini locali e la virtù terrestre dell’autolimitazione.


Con tristezza, ma senza nostalgia, riconosciamo che il passato è passato. Sia pur con esitazione, cerchiamo allora di condividere ciò che vediamo: alcune conseguenze derivanti dal fatto che la terra ha perduto il suo suolo. Di fronte all’indifferenza per il suolo mostrata dagli ecologisti dei consigli di amministrazione proviamo fastidio, ma siamo altrettanto critici nei confronti di quei numerosi romantici, luddisti e mistici benintenzionati che esaltano il suolo facendone la matrice della vita anziché della virtù. Lanciamo perciò un appello a favore della filosofia del suolo: un’analisi chiara e disciplinata di quella esperienza e memoria del suolo senza le quali non vi può essere né la virtù, né alcuna nuova forma di sussistenza.


Traduzione di Antonio Airoldi




NOTE:


[1] Scive Illich in Lavoro ombra: “le scienze economiche suppongo sempre un postulato di scarsità. Ciò che non è scarso non può essere sottomesso a un controllo economico. Questo si applica tanto alle merci e ai servizi quanto al lavoro. Questo postulato di scarsità ha impregnato tutte le nostre istituzioni moderne […] e resta in gran parte sconosciuto al di fuori delle società iperproduttrici di merci.” 

L’economista Léon Walras, padre del concetto di scarsità (rareté) quale impiegato da Illich in questo passaggio, lo definisce in termini paralleli a quelli del concetto di calore quale concepito dalla fisica. Proprio come non esistono corpi freddi o caldi, ma solo gradazioni di calore, così, secondo il postulato della scarsità, non esistono risorse scarse o abbondanti, ma solo gradi di questa scarsità. Questa situazione ci appare tanto più naturale quanto il modello di produzione industriale delle società iperproduttrici (quindi iperconsumatrici) di merci è capace di trasmutare cose naturalmente sottratte a un regime di scarsità – aria, acqua, silenzio, fertilità dei suoli, biodiversità, trasmissione di saperi, lavoro, cura e relazioni umane, tempo – cose già considerate e trattate come beni comuni, in risorse scarse. Seguendo il ragionamento di Illich, ci accorgiamo che tali società non si limitano a captare e sfruttare economicamente risorse scarse, ma creano “paradossalmente” le condizioni stesse della scarsità. In altre parole: con i suoi prodotti, la produzione industriale produce anche scarsità. L’agricoltura industriale intensiva, per esempio, non produce semplicemente un certo tipo di derrate, ma produce al contempo impoverimento del suolo, problemi idrici, dipendenza dei prezzi delle derrate alimentari ai prezzi dei combustibili fossili, dipendenza finanziaria degli agricoltori a determinate sovvenzioni, politiche, prodotti dell’agroindustria e così via. E questo non è che un esempio fra i molti.



 

DECLARATION ON SOIL


Translation and notes by Francesco Zevio




Ivan Illich
Ivan Illich

A joint statement, drafted in Hebenshausen, Germany, December 6, 1990, in collaboration with Sigmar Groeneveld, Lee Hoinacki and other friends.



The ecological discourse about planet earth, global hunger, threats to life, urges us to look down at the soil, humbly, as philosophers. We stand on soil, not on earth. From soil we come, and to the soil we bequeath our excrements and remains. And soil – its cultivation and our bondage to it – is remarkably absent from those things clarified by philosophy in our western tradition. 


As philosophers, we search below our feet because our generation has lost its grounding in both soil and virtue. By virtue, we mean that shape, order and direction of action informed by tradition, bounded by place, and qualified by choices made within the habitual reach of the actor; we mean practice mutually recognized as being good within a shared local culture that enhances the memories of a place. 


We note that such virtue is traditionally found in labour, craft, dwelling and suffering supported, not by an abstract earth, environment or energy system, but by the particular soil these very actions have enriched with their traces. Yet, in spite of this ultimate bond between soil and being, soil and the good, philosophy has not brought forth the concepts that would allow us to relate virtue to common soil, something vastly different from managing behaviour on a shared planet. 


We were torn from the bonds to soil – the connections that limited action, making practical virtue possible – when modernization insulated us from plain dirt, from toil, flesh, soil and grave. The economy into which we have been absorbed – some, willy-nilly, some at great cost – transforms people into interchangeable morsels of population, ruled by the laws of scarcity [1]. 


Commons and homes are barely imaginable to persons hooked on public utilities and garaged in furnished cubicles. Bread is a mere foodstuff, if not calories or roughage. To speak of friendship, religion and joint suffering as a style of conviviality – after the soil has been poisoned and cemented over – appears like academic dreaming to people randomly scattered in vehicles, offices, prisons and hotels. 


As philosophers, we emphasize the duty to speak about soil. For Plato, Aristotle and Galen it could be taken for granted; not so today. Soil on which culture can grow and corn be cultivated is lost from view when it is defined as a complex subsystem, sector, resource, problem or "farm" – as agricultural science tends to do. As philosophers, we offer resistance to those ecological experts who preach respect for science, but foster neglect for historical tradition, local flair and the earthy virtue, self-limitation. 


Sadly, but without nostalgia, we acknowledge the pastness of the past. With diffidence, then, we attempt to share what we see: some results of the earth's having lost its soil. And we are irked by the neglect for soil in the discourse carried on among boardroom ecologists. But we are also critical of many among well-meaning romantics, Luddites and mystics who exalt soil, making it the matrix, not of virtue, but of life. Therefore, we issue a call for a philosophy of soil: a clear, disciplined analysis of that experience and memory of soil without which neither virtue nor some new kind of subsistence can be.



NOTES:


[1] In his Shadow Work, Illich writes: “Economic science always assumes a postulate of scarcity. What is not scarce cannot be subjected to economic control. This applies as much to goods and services as to labour. This postulate of scarcity has permeated all our modern institutions [...] and remains largely unknown outside of hyper-commodity-producing societies.”

The economist Léon Walras, father of the concept of scarcity (rareté) as employed by Illich in this passage, defines it in terms which are parallel to those of the concept of heat as conceived by physics. Just as there are no cold or hot bodies, but only degrees of heat, so, according to the postulate of scarcity, there are no scarce or abundant resources, but only degrees of this scarcity. This situation seems all the more natural to us insofar as the industrial production model of hyper-productive (and thus hyper-consuming) societies is capable of transmuting things that are naturally included in a regime of scarcity – like air, water, silence, soil fertility, biodiversity, transmission of knowledge, work, care and human relations, time – things that are already considered and treated as commons, into scarce resources. Following Illich’s reasoning, we realise that such societies do not merely capture and economically exploit scarce resources, but ‘paradoxically’ create the very conditions of scarcity. In other words: together with its products, industrial production also produces scarcity. Intensive industrial agriculture, for example, does not simply produce a certain type of foodstuff, but soil impoverishment, water problems, dependence of food prices on fossil fuel prices, financial dependence of farmers on certain subsidies, policies, agro-industry products, and so on. And this is but one example among many.

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