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FRANCESCO ZEVIO - SAPERE E PERSUASIONE

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Translation by the author



Carlo Michelstaedter (1887-1910), Autoritratto


Io lo so che parlo perché parlo ma non persuaderò nessuno…






















Prestigio di un sapere e capacità di persuasione: questi i fattori principali che permettono la decisione sovrana senza bisogno di ricorrere a forme aperte di forza, di violenza.


Ora è abbastanza chiaro che, nella nostra forma di società, le insidie maggiori tese all’individuo non sono tanto dovute all’azione dalla forza, quanto a quella della persuasione. Gli anelanti Mussolini non avranno camicie nere, manganelli e olio di ricino: è più probabile che le camicie siano grigie, blu o addirittura bianche… non camicie, ma camici.

Certo: forza e persuasione non si presentano mai in quanto elementi puri, perfettamente discernibili e dissociabili, bensì in quanto elementi spuri, compenetrati l’uno dell’altro. Resto comunque convinto che, nella nostra forma di società – come in ogni società caratterizzata dall’esistenza di un’opinione pubblica e di forti mezzi di produzione e scambio d’informazione –, le insidie derivanti all’individuo dalla persuasione siano maggiori e maggiormente problematiche di quelle derivanti dall’esercizio aperto della forza. È proprio nell’ambito della persuasione che più chiaramente si consuma la banalità del male, o ancora la violence comfortable di cui scrisse Camus. Tradurre il consumo di certi prodotti o servizi in requisito indispensabile per l’appartenenza a una comunità, a presupposto necessario a ché un individuo possa prendere parte e contribuire alla vita sociale, è una forma di violenza a cui siamo ormai assuefatti – violenza che non agisce apertamente, ma tramite una forma di persuasione – ciò che comunque non deve impedirci di riconoscerla e considerarla in quanto violenza. In ogni caso, che la spinta sia gentile (nudge) o meno, stiamo pur sempre parlando di una spinta. Occorre dunque metterci in guardia, in primis e soprattutto, dai metodi e i meccanismi della persuasione.

Alla persuasione si legano inevitabilmente sapere e prestigio.

Per chi non detenga un certo sapere, per chi quindi non sia in grado di giudicare dati e fatti e metodi in prima persona, il riconoscere valore alla conoscenza prodotta da tale sapere coincide essenzialmente a un atto di fede. E in base a cosa siamo portati a confidare in un sapere piuttosto che in un altro? In base al loro grado di prestigio. Noi crediamo alla conoscenza prodotta da un certo sapere in base al prestigio che accordiamo – in quanto società – al sapere che la produce [1].



 

1. In scienza e coscienza… se il giudizio in coscienza è esprimibile da ogni persona ed essenzialmente democratico, in quanto a ogni uomo è dato esprimersi in un giudizio politico, quello in scienza è di per sé antidemocratico, appannaggio di pochi detentori di un sapere particolare. Si consideri questo passaggio dal Protagora di Platone (322c) in cui Ermes chiede a Zeus in quale modo debba distribuire rispetto (αἰδώς) e giustizia (δίκη) tra gli uomini: «[…] devo distribuirli come sono state distribuite le arti (τεχναί)? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?» «A tutti – rispose Zeus – e che tutti ne siano partecipi… infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti». Scienza e coscienza: queste due parole si rivolgevano a due diverse realtà della persona umana: all’uomo tecnico e all’uomo politico-morale. L’epistemologia moderna si basa sulla scissione e sulla inconciliabilità di questi due uomini. Per il legame tra giudizio politico e morale si rifletta su questo passaggio (1253a) della Politica di Aristotele: «[…] perché l’uomo sia animale sociale (πολιτικόν) per eccellenza, più di qualsiasi ape o animale gregario, è chiaro. La natura, lo dicemmo, non fa nulla a caso: e l’uomo è l’unico animale a disporre della facoltà di instaurare relazioni tramite l’articolazione di parole in discorsi (λόγος). Tale facoltà chiarifica e rende manifesto ciò che giova e ciò che nuoce, così come ciò che è secondo giustizia (δίκαιον) e ciò che non lo è (ἄδικον)… e questo, tra tutti gli animali, è proprio solo all’uomo, lui solo ha percezione di ciò che è bene (ἀγαθοῦ) e di ciò che è male (κακοῦ), giusto e sbagliato e così via… e l’accordo comunitario (κοινωνία) su tutto ciò fonda gli agglomerati e la città (πόλιν)». Date le sue premesse epistemiche, la scienza moderna ha definitivamente reso obsoleto il giudizio in coscienza, eccependolo – quindi dissociandolo e facendolo poi riassorbire, ex-capĕre – nel giudizio in scienza. Servendosi di un altro mito, si può dire che l’uomo politico-morale, Abele, cade sotto la mano di suo fratello Caino, l’uomo tecnico. E quando gli viene chiesto dove sia Abele egli risponde: “non lo so… sono forse guardiano di mio fratello?” E questo proprio come, nella ricerca e nella pratica scientifica, la domanda dell’uomo politico-morale è stata e viene perlopiù circuita, evitata, rimessa al giudizio morale di terzi: ma come potranno questi terzi rispondere moralmente e politicamente, se lo stesso modello preminente di conoscenza è strutturato per togliere di mezzo questi ostacoli al suo progresso?

 

Certo: ogni sapere produce i propri risultati, ma pure loro non sfuggono a questa logica. Una medicina capace di estendere e allungare la vita umana, una tecnologia che permetta di scaricare il proprio apparato neurologico in qualche disco duro e sopravvivere cerebralmente e virtualmente all’infinito… anche questi “risultati” sono di fatto subordinati a un pregiudizio di valore, ad una equazione etica che storicamente fa coincidere l’incognita di ciò che è bene con l’estensione temporale quanto maggiore possibile di una vita quanto più piacevole possibile. Ma questa coincidenza è prodotto storico: non di natura o di necessità (certo anche la definizione di umano può essere considerata una variabile storica, ma questo ci porterebbe troppo lontano).


Da questa forma di prestigio deriva l’autorevolezza (o l’autorità) socialmente riconosciuta a un sapere, quindi all’élite detentrice di tale sapere, la quale determina la sua forza di persuasione. In linea generale, se vogliamo venire a conoscenza di qualcosa a proposito del nostro stato di salute, ascoltiamo e prestiamo fede a medici – ovvero all’élite detentrice del sapere medico [2] –, non ad astrologi o chiromanti. Parimenti, in fatto di organizzazione e strutturazione della vita sociale, siamo culturalmente inclini a lasciarci persuadere e guidare da economisti e dalla variopinta galassia degli esperti interpreti – a vario titolo – di dati statistici, non da filosofi o poeti. Autorevolezza e autorità socialmente accordate a un sapere permettono a tale sapere e alle élite che lo rappresentano di contare di più, di avere più peso nel processo decisionale.


 

2. Uso il termine detentore in aperto riferimento al funzionamento delle compagnie: un detentore d’azioni ottiene parte dei profitti della compagnia e ha il diritto di votare circa la sua politica in base all’ammontare delle sue azioni.

 

Perché sì, ogni sapere ha una sua élite.

Più la tecnica avanza (ovvero: più gli intermediari tecnologici necessari allo svolgersi della nostra vita si affinano e si fanno più complessi), più il sapere si concentra in élite vieppiù specializzate. Riparare una bicicletta è una cosa, riparare una macchina è un’altra. Scrivere su carta è una cosa, scrivere su un cellulare con tecnologia touch è un’altra. Ma il problema non è questo: né è, a maggior ragione, di ordine estetico o morale. Non è che sia più giusto o sbagliato scegliere la macchina piuttosto che la bicicletta, la carta piuttosto che il digitale, la medicina moderna o l’omeopatia. Il problema è quando la forma della società – cioè la sommatoria dei vettori dovuti agli interessi, alle pressioni interne a una determinata forma societaria – spinge per imporre e infine riesca a imporre certi standard tecnologici (e concomitanti prodotti) come necessari e inevitabili, o ancora naturali, per rifarsi a Epicuro e al concetto di mito di Barthes: il cui scopo viene descritto come quello di fondare una intenzione storica in natura, quindi di spacciare un prodotto storico e artificiale come qualcosa di astorico e naturale. Il problema è quando di fatto – sebbene non de iure, non per un vincolo emanante da una qualche normativa giuridica – diviene necessario equipaggiarsi in un certo modo, quindi consumare certi prodotti, per non risultare pressoché tagliato fuori dalla vita sociale.


Si può dire che, nei riguardi di una tecnica, un individuo è libero e indipendente nella misura in cui la comprenda e sia appunto libero e capace di intervenirvi in autonomia. Qualora egli non riesca in ciò ed essa sia comunque parte, non solo integrante, ma necessaria della sua esistenza, allora egli è in ogni momento potenzialmente schiavo, non solo di tale tecnica, ma anche e soprattutto di chi ne detenga il sapere. Si pensi ad una tecnica “semplice” come la scrittura, magari in sinergia con quella del diritto. Io potrei, detenendo un potere derivante dalla conoscenza di queste tecniche – nonché dal fatto che il valore del diritto sia stato imposto e sia, almeno per il momento, storicamente e socialmente radicato tramite un’azione di persuasione –, ottenere una firma da qualcuno che ignori queste tecniche e la loro sinergia, magari obbligandolo tramite vincolo legale (questo è il prodotto della tecnica del diritto) a qualcosa di iniquo e a mio esclusivo vantaggio.


Il fatto di vivere in un mondo di cui non si afferra la strumentazione tecnica determina, almeno in certi tipi umani, una forma d’angoscia e d’inquietudine di fondo [3]. E questo avviene comunque, in ogni caso, quale che sia il grado di efficacia di tale strumentazione. Per questo occorre ribadire ancora e sempre che lo sviluppo tecnico di una società non è di per sé stesso indice di progresso: soprattutto se esso si impone cancellando, sradicando condizioni di vita in cui il rapporto tecnica/perizia-tecnica era virtuoso, ovvero condizioni in cui gli uomini si avvalevano di strumentazioni – magari tecnologicamente meno complesse, meno efficaci e performanti – che però essi comprendevano a pieno, impiegandole in perfetta libertà, autonomia, indipendenza.


 

3. Angoscia ed inquietudine interpretabili, almeno in parte, tramite il concetto di prometeische Scham, di onta prometeica formulata da Anders nel suo primo saggio sulla Antiquiertheit des Menschen e definito come “l’asincronicità sempre crescente tra l’uomo e il mondo che ha prodotto, lo scarto ogni giorno maggiore che li separa.” Per tale concetto si confronti anche la seguente poesia, contenuta nel saggio sopracitato:


Täglich steigt aus Automaten

immer schöneres Gerät.

Wir nur blieben ungeraten,

uns nur schuf man obsolet.


Viel zu früh aus dunklem Grunde

vorgeformt und abgestellt,

stehen wir nun zu später Stunde

ungenau in dieser Welt.


Ach, im Umkreis des Genauen

ziemt uns kein erhobenes Haupt,

Dingen nur ist Selbstvertrauen

nur Geräten Stolz erlaubt.


Ogni giorno, dalla catena di montaggio,

si leva uno strumento più bello.

Solo noi restiamo degeneri,

solo noi fummo creati obsoleti.


Troppo presto, per un oscuro motivo,

plasmati e aggregati,

qui stiamo adesso, in ritardo sul tempo,

malriusciti, inadatti in questo mondo.


Ah... nella società delle cose riuscite

non ci si addice andare a testa alta,

solo alle cose è concessa la fiducia in sé,

solo agli strumenti la fierezza.

 

Il problema è che noi, in fatto di tecnologia, soffriamo di un pregiudizio di valore (dico “noi” in quanto civiltà). Inoltre, proprio come avviene per ogni caso di pregiudizio, a questo primo problema se ne aggiunge un secondo, concomitante, ovvero che non siamo in alcun modo coscienti del primo. E il primo problema è che le tecniche vengono giudicate e valutate accordando la massima importanza al fattore della performatività, se mi si passa il termine.

Più una tecnica è efficace – più essa è performante –, più viene considerata (anche in fatto di finanziamenti) e osannata. Quando assistiamo all’entusiasmo che segue il lancio di qualche nuovo prodotto tecnologico sul mercato, o addirittura di qualche falloide razzo Gran Turismo caricato di CDO (ri)svegliati e profeti della rivoluzione digitale, dobbiamo riconoscere che non sono certo le considerazioni sui fini di simili exploit tecnologici che determinano tale entusiasmo e trasporto. Per ottenere ciò la tecnologia non ha bisogno di fini e dialogo sui fini: le basta prodursi come mezzo in un salto mortale, in una prodezza di ragione sufficiente che basta a sé stessa per produrre anche e al contempo un avvenimento, un happening secondo parte della definizione di Kaprow, considerato il padre degli happening: “[…] qualcosa che accade solo per accadere, that just happens to happen.”


In un mondo compenetrato a tal punto dalla strumentazione tecnica, tra l’altro, una interpretazione dei fenomeni basata sulla divisione classica tra fini e mezzi pare decisamente antiquata.


Occorre ribadire che quello della performatività non deve essere fatalmente considerato come il fattore preponderante nella formulazione di un giudizio, anche perché tutte le maggiori crisi del nostro mondo hanno proprio questo in comune: la contro-produttività paradossale degli strumenti tecnici sviluppati e messi in campo dall’uomo. La ricerca tecnologica dovrebbe riconoscere questo pregiudizio e orientarsi altrimenti, rinunciando in via definitiva alla tirannica preminenza della performatività nel suo orizzonte di valore.

Un altro vitale fattore di giudizio, capace di controbilanciare tale preminenza, è quello che potremmo chiamare della bassa-medialità: quindi fare in modo che una tecnica sia sviluppata nella prospettiva che l’uomo possa entrare in rapporto con essa e servirsene tramite il minor numero possibile di mediazioni. Una macchina, per muoversi, ha bisogno di carburante. Una bicicletta no, perché il suo carburante è l’energia metabolica umana. Considerata sul piano della performatività in fatto di velocità e altro, la bicicletta perde… ma al contempo, se considerata sul piano della bassa-medialità in fatto di costi materiali di produzione e manutenzione e così via, vince su tutta la linea. Questo discorso ripropone quello sviluppato da Ivan Illich su strumento maniable (maneggevole: più immediato, ovvero bassamente-mediato) e manipulable (manipolabile: che necessita di più mediazioni), ma anche la sua idea di una ricerca radicale che si concentri su due obbiettivi: il primo consistente nel fornire i criteri che permettano di determinare quando una certa strumentazione (sia essa tecnica, istituzionale, amministrativa) abbia raggiunto la soglia di nocività, dunque quando la sua produttività cominci a rovesciarsi in contro-produttività; il secondo nell’ideare e nel produrre strumentazioni che ottimizzino l’equilibrio della vita, che mirino quindi a impostare virtuosamente il rapporto uomo/strumentazione e uomo/mondo.

Ancora una volta: meno un individuo ha presa cognitiva e libertà d’azione e d’intervento autonomo su una tecnica, più egli dipende, sia materialmente che nella formulazione di un giudizio, da chi detiene il sapere legato a tale tecnica e quindi, naturalmente, dalle istituzioni che gestiscono, riproducono, formalizzano, propagano, impongono tale sapere.

Mi si dirà, forse, che questo è inevitabile… e in un certo senso lo è.

Risponderò che allora, in tal caso, continuando a muoversi secondo questa logica, il solo problema davvero rilevante si riduce a quello della integrità delle élite – ciò che distruggerebbe un buon 90% di tutto il prestigio socialmente accordato all’impostazione galileiana del sapere fisico matematico centrato su quantità e problemi relativi alla trascrizione e formulazione in dati di quantità, con relative culture e discipline e ideologie – perché ricondurre il nocciolo del problema alla integrità delle élite significa ricondurre la ricerca al sapere ed alla pratica filosofica, ai discorsi sui fini, alla preminenza del λόγος inteso come parola e discorso – come ricerca, indagine e preminenza della relazione – quindi alla politica, alla preminenza sulle cose (o pretesi fatti) del discorso intorno alle cose, alla centralità del τί ποτε βούλεσθε σημαίνειν ὀπόταν ὄν φθέγγεσθε, del “cosa intendete significare quando dite essere”. Oltre a ciò, se questo fosse davvero il problema, nulla impedirebbe a una teocrazia talebana di produrre élite più integre di quelle di una democrazia liberale con governo tecnico a stagioni alterne di supersaggi in ambito medico ed economico.


In ogni caso, al di là di queste considerazioni, resta da chiedersi se una democrazia formata da individui che non posseggono sufficiente cultura per comprendere l’ambiente, la tecnosfera in cui vivono e le conseguenze dei loro usi e consumi abbia davvero diritto di definirsi democrazia, o non debba finalmente decidersi a ribattezzarsi come agnoiacrazia, ovvero “potere all’assenza di cognizione”.


È questo il movimento basilare dell’epoca postindustriale – dove il post vuole indicare un incremento, un potenziamento di logiche già presenti nel primo termine, non un qualche superamento – strumentazioni tecniche che raggiungono un tale grado di complessità ed efficacia da espropriare l’essere umano dall’azione autonoma e dalla comprensione del proprio mondo, promettendogli benessere e successo (socialmente definiti) nel fatto di acconsentire alle logiche della propria gestione, regolata da tali strumentazioni e amministrata delle élite detentrici del sapere che le riguardano.


I maestri greci hanno insegnato a non confidare né troppo né troppo poco nella capacità individuale di controllare il futuro, a distinguere tra sventure che dipendono dall’individuo e sventure che dipendono invece dalla necessità [4]. Hanno insegnato a non temere la morte come l’estremo, il peggiore dei mali. Hanno insegnato a non desiderare la sopravvivenza sans rêve ni merci (senza sogno né pietà) della macchina biologica umana come il bene ultimo, estremo, fatale, definitivo. La nostra lotta non è per la sopravvivenza della macchina umana, ma per la sopravvivenza, nella macchina umana, di quelle esperienze del cuore e del pensiero che fanno di lei parte di un tutto più esteso, di ciò che ci intestardiamo a chiamare essere umano. È questo il nostro umanesimo. Più il sapere si concentra nelle mani di pochi, più la politica si trasforma in gestione, più il rapporto tra essere umani sarà verticale. Noi non affermiamo il diritto a disporre di più tecniche, o di tecniche più complesse e performanti. Noi affermiamo il diritto dell’essere umano a vivere in un mondo che non lo schiacci, che non lo incateni, che non lo alieni, che non lo renda definitivamente obsoleto… un mondo che egli comprenda il più possibile, sul quale egli possa agire – quindi instaurare relazioni – con il maggior grado di libertà e autonomia: e questo tramite dialogo, scambio, creatività e confronto in un rapporto quanto più orizzontale possibile con i suoi simili e col mondo.


 

4. Il punto è che la tecnica quale sviluppatasi in seno e a servizio della civiltà industriale, promettendo di delimitarne sempre più la forza e l’azione, rende obsoleta l’idea stessa di necessità. Ma questo significa, al contempo, rendere obsoleta e distruggere l’idea di limite. L’idea di una crescita e di un progresso illimitati sono cieche speranze alla base di tale civiltà: ma, proprio come ricorda Georgescu-Roegen applicando ai concetti economici i principi della termodinamica, i limiti esistono e non si possono ignorare o mistificare all’infinito. Proprio come il Prometeo di Sofocle, prima o poi saremo costretti a riconoscere che τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷ, “la tecnica è molto più debole della necessità”. E questo nonostante le cieche speranze – τυφλαὶ ἐλπίδαι – instillate ai mortali dalla tecnica industriale e dai suoi nuovi fiammanti prometei.



 

KNOWLEDGE AND PERSUASION



Carlo Michelstaedter (1887-1910), Self-portrait


I now that I am speaking because I speak, but that I will not persuade nobody…


















Prestige of knowledge and capacity for persuasion: these are the main factors that allow for sovereign decision-making without the need to resort to open forms of force, of violence.

This being said, it is quite clear that, in our form of society, the greatest pitfalls aimed at the individual are not so much due to the action of force, but to that of persuasion. The Mussolini to come will probably not wear black shirts, or handle truncheons and castor oil. It is more likely that their shirts will be grey, blue or even white… not black shirts, but white coats.

It is true that force and persuasion never present themselves as pure, perfectly discernible and dissociable elements, but as spurious and interpenetrating one another. Nevertheless, I’m still convinced that in our form of society (as in any society characterised by the existence of both a public opinion and strong means of production and exchange of information) persuasion's pitfalls are more problematic for the individual than those due to the open exercise of force. It is precisely in persuasion’s perimeter that the banality of evil, or the comfortable violence of which Camus wrote, is most clearly consummated. The fact of translating the consumption of certain products or services into a prerequisite for belonging to a community, into a necessary precondition for an individual to take part in and contribute to social life, is a form of violence to which we have become accustomed – violence that does not act openly, but through a form of persuasion – but this form of accustomance should not prevent us from recognising and considering it as violence. In any case, whether light or not, a nudge still remains a nudge. We must therefore be alerted, first and foremost, against the methods and mechanisms of persuasion.


Two entities are inevitably linked to persuasion: knowledge and prestige.

For those who do not possess a certain knowledge, for those who are therefore not in a position to judge data and facts and methods for themselves, the act of recognising value in the knowledge produced by that knowledge essentially amounts to an act of faith. On what basis are we led to trust one kind of knowledge rather than another? On the basis of their prestige. We trust – and even "believe in" – the knowledge produced by a certain branch of knowledge according to the prestige we accord – as a society – to the branch that produces it [1].


 

1. In scientia et conscentia... if the judgement in conscientia (integrity, consciousness) can be expressed by every person and it is thus essentially democratic (in that every man is given to express himself in a political judgement) the judgment in scientia is in itself undemocratic, the prerogative of a few holders of a particular knowledge. Let us consider this passage from Plato’s Protagoras (322c) in which Hermes asks Zeus how he should distribute respect (αἰδώς) and justice (δίκη) among men: “[...] am I to deal them out as the arts (τεχναί) have been dealt? That dealing was done in such wise that one man possessing medical art is able to treat many ordinary men, and so with the other craftsmen. Am I to place among men right and respect in this way also, or deal them out to all?”. “To all,” replied Zeus. “Let all have their share: for cities cannot be formed if only a few have a share of these as of other arts.” Science and conscience: these two words addressed two different realities of the human person: the technical man and the political moral man. Modern epistemology is based on the split and irreconcilability of these two men. For the link between political and moral judgement, we can read this passage (1253a) from Aristotle's Politics: “[...] And why man is a political animal (πολιτικόν) in a greater measure than any bee or any gregarious animal is clear. For nature, as we declare, does nothing without purpose; and man alone of the animals possesses speech (λόγος). The mere voice, it is true, can indicate pain and pleasure, and therefore is possessed by the other animals as well (for their nature has been developed so far as to have sensations of what is painful and pleasant and to indicate those sensations to one another), but speech is designed to indicate the just (δίκαιον) and the injust (ἄδικον), and therefore also the right and the wrong; for it is the special property of man in distinction from the other animals that he alone has perception of good (ἀγαθοῦ) and bad (κακοῦ) and right and wrong and the other moral qualities, and it is common agreement (κοινωνία) in these things that makes a city-state (πόλιν).” Given its epistemic premises, modern science has definitively rendered obsolete the judgement in conscientia by excepting it – thus dissociating it and then having it reabsorbed, ex-capĕre – into judgement in scientia. Using another myth, we can say that the political-moral man, Abel, dies by the hand of his brother Cain, the technical man. And in fact, when asked where Abel is, Cain replies: “I don’t know, am I my brother's keeper?” And this happens as just as, in scientific research and practice, the question of the moral-political man has been and is largely avoided and referred to the moral judgement of third parties: but how will these third parties be able to respond morally and politically, if the pre-eminent model of knowledge itself is structured to remove these obstacles (i. e. moral issues) to its progress?

 

It is obvious that each knowledge produces its own results: but they too do not escape this logic of prestige. A medicine capable of extending and prolonging human life, a technology that allows one’s neurological apparatus to be unloaded into some hard disk and to cerebrally and virtually survive forever… even these ‘results’ are in fact subordinated to a prejudice of value, to an ethical equation by which the variable of what is good for humans coincide with the temporal extension of a life as pleasant and comfortable as possible. But this coincidence is an historical product, not a product of nature or necessity (even the definition of human may be considered as an historical variable, but this would take us too far away).


From this form of prestige derives the socially recognised authoritativeness (or authority) of a certain knowledge, hence of its elite, which finally determines its power of persuasion. Generally speaking, if we want to know something about our state of health, we listen to and trust doctors – i.e. the elite of medical knowledge, the medical knowledge holders [2] – not astrologers or fortune tellers. Likewise, when it comes to the organisation and structuring of social life, we are culturally inclined to let ourselves be persuaded and guided by economists and the motley galaxy of experts who interpret – according to their various diploma – statistical data, not by philosophers or poets. Authoritativeness and authority socially accorded to a knowledge allow the elites representing it to count more, to carry more weight in the decision-making process.


 

2. Holders: this is an explicit reference to the functioning of companies. Who owns shares gets part of the company’s profits and has the right to vote on how the company is controlled according to the amount of his shares.

 

We should not forget that each knowledge has its own elite.

The more technology advances (i.e. the more the technological intermediaries necessary for carrying on our lives become increasingly refined and complex), the more knowledge becomes concentrated in increasingly specialised elites. Repairing a bicycle is one thing, repairing a car is another. Writing on paper is one thing, writing on a mobile phone with touch technology is another. But that is not the issue: nor is it, all the more so, an aesthetic or moral one. It is not that it is more right or wrong to choose a car over a bicycle, paper over digital, modern medicine over homeopathy. Problems only arise when the form of society – i.e. the summation of vectors due to the interests, to the internal pressures of a given societal form – pushes to impose and finally succeeds in imposing certain technological standards (and concomitant products) as either necessary and inevitable, or even natural, to refer back to Epicurus and Barthes’ concept of myth: the purpose of which is described as that of founding a historical intention in nature, thus passing off a historical and artificial product as something ahistorical and natural. The problem is when de facto – although not de jure, not because of a constraint emanating from some legal regulation – it becomes necessary to equip oneself in a certain way, hence to consume certain products, not to be almost cut off from social life.


It can be said that, with regard to a technique, an individual is free and independent to the extent that he understands it and is therefore free and capable of intervening in it independently.


If this does not happen and this technique is nonetheless not only an integral, but a necessary part of his existence, then the individual is at all times potentially enslaved, not only by that technique, but also and above all by its elite, by knowledge-holders. We can think of a “simple” technique such as writing, perhaps in synergy with that of law. Through the power derived from mastering the knowledge of these techniques – as well as from the fact that the value of law has been imposed and is, at least for the moment, historically and socially entrenched through an action of persuasion – I could easily obtain a signature from someone who is unaware of these techniques and the effects of their synergy, perhaps obliging him through legal constraint (this is the product of the technique of law) to something unfair and to my exclusive advantage.


The fact of living in a world of which one does not grasp the technical instrumentation determines, at least in certain human types, a form of underlying anguish and disquiet [3] . And this happens in any case: whatever the effectiveness’ degree of that instrumentation may be. This is why it is necessary to reiterate again and again that a society’s technical development is not, in itself, a sign of progress: especially if this "progress" imposes itself by erasing, by eradicating conditions of life in which the relationship between technique and technical expertise was virtuous: that is, conditions in which humans made use of tools – perhaps technologically less complex, less effective and performing, but which they fully understood – freely, autonomously, in full independence.

 

3. Anguish and disquiet which can be interpreted, at least in part, through the concept of prometeische Scham, the Promethean shame formulated by Anders in his first essay about the Obsolescence of man. This concept is defined as “the ever-increasing a-synchronicity between man and the world he has produced, the ever-growing gap that separates them. In order to better understand this concept, here a poem from the above-mentioned essay:


Täglich steigt aus Automaten

immer schöneres Gerät.

Wir nur blieben ungeraten,

uns nur schuf man obsolet.


Viel zu früh aus dunklem Grunde

vorgeformt und abgestellt,

stehen wir nun zu später Stunde

ungenau in dieser Welt.


Ach, im Umkreis des Genauen

ziemt uns kein erhobenes Haupt,

Dingen nur ist Selbstvertrauen

nur Geräten Stolz erlaubt.


Every day, off the assembly line

a more beautiful instrument rises up.

Only we remain degenerate,

only we were created obsolete.


Too soon moulded and aggregated,

for an obscure reason,

here we stand now, too late,

unsuitable in this world.


It does not suit us to go head

in the society of successful things:

self-confidence is only granted to things,

and pride is only allowed to tools.

 

The problem is that, when it comes to technology, we suffer from a prejudice of value (I mean "we" as civilisation). Moreover, just as with any case of prejudice or bias, this first problem is compounded by a second: namely that we are in no way aware of the first. And the first problem is that techniques are judged and evaluated by attaching the utmost importance to the factor of performativity.

The more effective a technique is – the more performative it is – the more it is considered (also in terms of funding) and hailed. When we witness the enthusiasm that follows the launch of some new technological product on the market – or even of some phallic Grand Touring rocket loaded with (a)woke CDOs and prophets of the digital revolution – we have to recognise that it is certainly not the considerations of the ends of such technological exploits that determine such enthusiasm and transport in part of the population. To achieve this, technology does not need ends and dialogue about ends: it is enough for it to produce itself as a means in a somersault, in a sufficient reason’s exertion that is able to also and at the same time produce an event, a happening according to part of Kaprow’s definition: “[...] something that just happens to happen.” In a world interpenetrated to such an extent by technical instrumentation, among other things, an interpretation of phenomena based on the classical division between ends and means seems decidedly antiquated.

It must be reiterated that performativity should not fatally be considered as the preponderant factor in the formulation of a judgement, especially if we consider that all the major crises in our world have precisely this in common: the paradoxical counter-productivity of the technical instruments developed and deployed by humans. Technological research should recognise this prejudice – this cognitive as well as ethical bias – and orient itself otherwise, renouncing in a definite way the tyrannical pre-eminence of performativity in its horizon of value.


Another vital factor of judgement, capable of counterbalancing this pre-eminence, is what we might call low-mediacy, which consists in ensuring that a technique is developed from the perspective that humans would make use of it, thus integrating it in their world, through as few mediations as possible. A car, to move, needs fuel. A bicycle does not, because its fuel is human metabolic energy. Considered from the perspective of performativity (i. e. in terms of speed and so on) the bicycle loses; but at the same time, if considered from the perspective of low-mediacy (i. e. in terms of material costs of production, maintenance and so on) it wins across the board. This point reiterates the one developed by Ivan Illich on manageable (more immediate, i.e. low-mediated) and manipulable (needing more mediations) tools, but also his idea of a radical research focusing on two objectives: the first consisting in providing the criteria to determine when a certain instrumentation (be it technical, institutional, administrative) has reached the threshold of harmfulness, so when its productivity begins to turn into counter-productivity; the second in devising and producing tools that optimise the balance of life, thus aiming to virtuously set up the relationships humans/instrumentation and humans/world.


Once again: the less an individual has cognitive comprehension and freedom of action or autonomous intervention on a technique, the more he depends (both materially and concerning the formulation of a judgement) on those who hold the knowledge linked to that technique and thus, of course, on institutions that manage, reproduce, formalise, propagate and impose that knowledge.


It will be said, perhaps, that this is unavoidable… and in a way it is.

I will reply that, if we proceed further on according to this logic, the only really relevant problem is that concerning the elites’ uprightness. This admission would destroy around 90% of all the social prestige accorded to the Galilean approach of physical-mathematical knowledge centred on quantity and problems relating to the transcription and formulation of quantities into data, with all its related cultures and disciplines and ideologies. Bringing the core of the problem back to the integrity of the elites means to bring research back to philosophical knowledge and practice: i. e. to discourses centred on ends, to the pre-eminence of the λόγος (understood as word and discourse: as research, enquiry and pre-eminence of relation), therefore to politics, to the pre-eminence over things (or alleged facts) of the discourse around things, to the centrality of τί ποτε βούλεσθε σημαίνειν ὀπόταν ὄν φθέγγεσθε, of “what you mean when you say being”. Besides, if this is the real issue, nothing would prevent a Taliban theocracy from producing more upright elites than those of a liberal democracy with technical government of medical and economic superwisemen.


In any case, apart from these considerations, we can still ask ourselves whether our democracies (i.e. democracies formed by individuals who do not possess sufficient culture to understand their environment, the technosphere in which they live and the consequences due to their uses and consumptions) really have the right to define themselves as democracies, or if they should not rather decide to rename itself agnoiacracies, or “power to the absence of knowledge”.


This is the basic movement of the post-industrial era (where post- is meant to indicate an increase, an empowerment of logics already present in the first term, not the fact that they are overcome): technical tools that reach such a degree of complexity and effectiveness as to expropriate human beings from autonomous action and from the comprehension of their world, promising them a socially defined well-being and success by the virtue of their contentment to the logics of their own management, which are in turn regulated by the abovementioned tools and administered by the elites who hold the knowledge concerning them.


The Greek masters and wises taught not to trust too much neither too little in the individual’s ability to control the future. They taught to distinguish between misfortunes that depend on the individual and misfortunes that depend on necessity [4]. They taught not to fear death as the extreme, the worst of evils: they have taught us not to pursue the survival sans rêve ni merci (without dreams nor mercy) of the human biological machine as the ultimate, final, fatal good. Our struggle is not for the survival of the human machine: but for the survival, in the human machine, of those experiences of the heart and thought that make it part of a larger whole, i. e. of what we insist on calling a human being. This is our humanism. The more knowledge is concentrated in the hands of few, the more politics is transformed into management. We do not assert the right to have more techniques, or more complex and performing techniques. We assert the right of the human being to live in a world that does not crush him, that does not enchain him, that does not alienate him, that does not render him definitively obsolete... a world that he understands as much as possible, a world on which he can act – and thus establish relationships – with the greatest degree of freedom and autonomy: and this through dialogue, exchange, creativity and confrontation with his fellow human beings and with the world itself.



 

4. The point is that technology as developed within (and at the service of) industrial civilisation, by the promise of increasingly delimit its power and action, destroys the very idea of necessity. But this means to also destroy the idea of limit. The ideas of an unlimited growth and progress are blind hopes at the basis of the abovementioned civilisation: but, just as Georgescu-Roegen reminds us by applying the principles of thermodynamics to economic concepts, limits exist and cannot be indefinitely overlooked or mystified. Just like Sophocles’ Prometheus, sooner or later we will be forced to recognise that τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷ, that “technique is much weaker than necessity”. And this in spite of the blind hopes – τυφλαὶ ἐλπίδαι – instilled in mortals by industrial technology and its brave new prometheuses.


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