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FRANCESCO ZEVIO - MILITARIZZAZIONE DELLA PAROLA

IT/EN

Translation by the author



Da quanto tempo non scrivo. Ti ci metti, dopo qualche parola ti cade la penna, dopo una frase o due la fede nella parola. Perché tanto silenzio? Nel frattempo sono esplose guerre. Guerre e crisi e cifre d’affari, perlopiù le solite. Nel frattempo sono bruciate foreste, sono curiosamente esplosi gasdotti e avvenuti attentati, si sono ringalluzzite e inferocite teocrazie parlamentari, sono stati imprigionati militanti, sono stati comprati da multimiliardari ettari ed ettari di terre in Nuova Zelanda, sono divampate guerre civili, sono tornate di moda minacce nucleari… perché tanto silenzio?


Larwin, Soldat und Tod, 1917

Ebbene, almeno in parte, tale silenzio è dovuto alla progressiva e uniforme tendenza alla militarizzazione della parola. L’impressione è che, in particolare a partire dal Covid, l’uso della parola sia andato sempre più polarizzandosi verso un uso militare. Finché ce lo si poteva permettere, era il mercante a disporre della parola. La sua propaganda era propaganda commerciale. Ora il criminale-pubblicitario sembra doversi mettere un po’ da parte e lasciare libero il palco per il criminale-assassino. O forse solo cambiare d’abito e di personaggio.


Ma il criminale-assassino non può semplicemente sbarcare e far come gli pare. Perché a noi, “primo mondo” in cui comunque, per privilegio storico, anche se ormai verrebbe quasi da dire per inerzia storica, esiste e per il momento continua ad avere un qualche peso l’opinione pubblica, questa cosa della guerra e dei criminali di guerra non ci piace. La guerra è cosa brutta, lo si sa, per farla bisogna che dall’altra parte ci sia qualcuno o qualcosa di bruttissimo. Di inumano, di irrecuperabile: animali, da trattare come tali (sto citando qualcuno). E allora l’uso militare della parola è ciò che, facendo tabula rasa di tutte quelle sfumature e contraddizioni che potrebbero mettere in crisi l’opera di disumanizzazione del nemico (o dell’opinione, o del pensiero scomodo) di turno, ce lo consegna in una immagine di male assoluto e irredimibile; e che lo fa dissimulando, al contempo, il nostro possibile contributo alla situazione da cui, giunta al parossismo, è esplosa la violenza. Proprio quella parola che può il contrario. Proprio quella parola che, nella pratica del dubbio che ci sforziamo di portare avanti, tende al contrario. 


(Parentesi: con questo non si vuole additare a una situazione irenica di completa assenza di conflitto, di illimitata possibilità di conciliazione della parola. I limiti della dialettica esistono: l’inconciliabilità dei fini e dei valori può esistere. Ma allora, se i nostri discorsi su dialogo e valori democratici sono qualcosa di diverso da mera autosuggestione e mantra ininterrotto per la sublimazione della nostra dissonanza cognitiva, questa conflittualità dovrebbe essere assunta coscientemente, ovvero attraverso un diverso uso della parola, tendente prima di tutto a dissipare la nebulosa ideologica che alimenta visioni manichee, confusione, odio. Se così non sarà, i valori democratici e i loro strumenti – fra cui un uso per così dire diplomatico, non militare della parola – saranno sempre più percepiti come armi e sotterfugi “da eunuchi” da una sempre più ampia fetta di popolazione, insoddisfatta o frustrata dai sistemi che di tali valori fanno la loro bandiera, parti di popolazione a cui parrà preferibile il “virile” autoritarismo e l’aperta assunzione della violenza dei regimi autoritari. Ma è probabile che il regime di doppia verità delle democrazie capitaliste sia ormai troppo radicato per permettere loro una decisa presa di posizione, una chiara e seria assunzione delle contraddizioni: si tira dunque avanti col regime ipocrita e opaco della doppia verità come si può, navigando e bombardando a vista.)


“Quelle cose che ti rappresenti spesso nel pensiero, quelle stesse cose daranno forma alla tua mente. La tua anima, infatti, si tinge delle immagini che in essa si formano” (Marco Aurelio, V, 16). Questo uso della parola che ho definito militare tinge le nostre anime e le prepara, o le accomoda, alla guerra. 


Si era partiti dalla difesa contro il Covid. Ricordate? I nostri paesi erano in guerra contro il virus e bisognava mobilitarsi in massa, armarsi per contrastarlo. E la parola diveniva un’arma fra le altre, anche se forse non proprio fra le altre, in quanto strumento essenziale per la determinazione e l’orientamento dell’opinione pubblica, quindi per assicurarsi la non diserzione e lo stato di mobilitazione ininterrotta della collettività. Già al tempo del Covid era divenuto palese come la parola tornasse con foga a servire questo scopo. E in tempi d’urgenza-emergenza, si sa, ogni forma di perplessità, ogni tentennamento, ogni rallentamento rispetto al ritmo imposto dallo stato d’eccezione, ogni sforzo volto a isolare e a mettere in luce una sfumatura e insomma: ogni opera di dubbio è altamente sospetta. Ogni tentativo di intelligenza cade immediatamente in sospetto di intelligenza col nemico.


Per chi, come noi, tentava un altro uso della parola, nell’atmosfera della sua militarizzazione (e concomitante superfetazione della chiacchiera: perché, coi droni che ronzano e le bombe che uccidono, alzare il volume del blablame di fondo fa bene per pensare ad altro, ovvero per non pensare) in tale atmosfera la scelta più ragionevole, forse anche e in parte la più facile e vigliacca, era il silenzio. Λάθε βιώσας… vivi nascosto, è una massima che conosciamo e che sappiamo applicarsi tradizionalmente ai periodi in cui l’azione e la giustizia, anche solo quelle che hanno luogo nella parola, sembrano precluse. 


Con questo non parlare non abbiamo mai inteso ridurci alla bassa mistica del silenzio: consci del fatto che, mentre si è indotti a tacere, oltre alla chiacchiera – o in quanto amministratrici della chiacchiera – risuonino forti e chiare ben altre voci. Ma c’è un limite alle forze mentali o fisiche o di tempo, anche solo per quelle necessarie a chiarire possibili fraintesi emergenti dal fatto di parlare, di entrare in dialogo o in polemica, soprattutto se la percezione è quella che tali fraintesi vengano intrattenuti – se non direttamente seminati – in cattiva fede, ovvero sapendo trattarsi di fraintesi, se non proprio menzogne, al fine d’alimentare l’equivoco e sfruttarne l’effetto nel pubblico di lettori o spettatori. 


L’atmosfera di cui sopra dissemina fraintesi ovunque. Ti accingi a scrivere. Ti senti il foglio sotto le mani – l’impressione è quella di un campo minato. Ogni parola fraintendibile è una mina, ogni passo in avanti richiederebbe infinite, sfiancanti, usuranti cautele. Oltretutto, l’effetto non è per nulla assicurato… e le forze per combattere battaglie d’ideali non ci sono, non adesso. E allora non ti muovi, non scrivi. Aspetti che tornino le forze. E le forze tornano, pian piano, anche solo nel condividere qualche parola senza ferocia, per il provvidenziale ascolto di qualche amico, anche solo nell’esprimere loro e condividere con loro il tuo sentimento d’impotenza, questo stato di confusione sbigottita e disperata, per il momento, forse solo per il momento…





Franco Fortini (1917-1994)
Franco Fortini (1917-1994)


Come dicevo, se non scelgo di star zitto (molti me lo augurano) è perché a partire da due o dieci righe scritte per provare a se stesso di essere ancora vivo – o, come è stato detto, per «provare a se stesso di non essere inferiore a quelli che disprezzo» – può darsi un lettore avvenire possa essere indotto a praticare, piuttosto che altre righe del loro autore, i pensieri non firmati, i modi di essere e di assumere il mondo e se stessi, ai quali come a una patria queste righe alludono.


F. Fortini, Extrema ratio





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Francesco Zevio

Co-fondatore del movimento Cultura in Atto, ha pubblicato due libri di poesia (Suite dei mondi e Liriche randagie) e due manualetti per l’apprendimento del latino e del greco antico. Ha studiato e vissuto in Italia, Germania e Francia, paese in cui vive, insegna e milita attualmente.



 

THE MILITARIZATION OF SPEECH




How long has it been since I wrote. You take a pen, after a few words it falls from your hand, after a sentence or two the faith in words, the faith in the speech fails. Why so much silence? In the meantime wars have exploded. Wars and crises and business volumes, mostly the usual ones. In the meantime forests have burned, gas pipelines have curiously exploded and terror attacks have occurred, parliamentary theocracies have become spirited and enraged, militants have been imprisoned, hectares and hectares of land in New Zealand have been bought by multi-billionaires, civil wars have flared up, nuclear threats have come back into fashion… why so much silence? 




Larwin, Soldat und Tod, 1917


Well, this silence is partially due to the progressive and uniform tendency towards the militarization of speech. The impression is that, especially since Covid, the use of speech has increasingly polarized towards a military use. As long as we could afford it, it was the merchant who had the speech at his disposal. His propaganda was commercial propaganda. Now the criminal-advertiser seems to have to step aside and leave the stage free for the criminal-murderer. Or maybe he just has to change clothes and character. 


But the criminal-murderer can not just disembark and do as he pleases. He can not do it because here, in our “brand first world” in which, by historical privilege, even if one might almost say by historical inertia, public opinion still exists and continues to have some weight, we don’t really like (for the moment: but it might change) this thing about war and war criminals. War is an ugly thing, we all know that, and in order to wage war there must be someone or something very ugly on the other side. Something inhuman, irredeemable: animals, to be treated as such (I’m quoting someone). And so the military use of speech is that technique which, by wiping out all those nuances and contradictions that could undermine the work of dehumanization of the aimed enemy (or opinion, or inconvenient thought), depicts it as image of absolute and irredeemable evil; and that does so by simultaneously dissimulating our possible contribution to the situation from which, having reached paroxysm, violence has exploded. Precisely that speech that can do the opposite. Precisely that speech that, in the practice of doubt that we strive to carry forward, tends to do the opposite. 


(Parenthesis: this is not meant to point to an irenic situation of complete absence of conflict, of unlimited possibility of conciliation of speech. The limits of dialectics exist: the irreconcilability of purposes and values ​​can exist. But then, if our discourses on dialogue and democratic values are something other than mere autosuggestion and uninterrupted mantra for the sublimation of our cognitive dissonance, this conflict should be assumed consciously, that is, through a different use of the speech, which should first and foremost strive to dissipate the ideological nebula that fuels manichean visions, confusion, hatred. If this is not the case, democratic values ​​and their instruments – including a diplomatic, non-military use of speech, so to speak – will be increasingly perceived as “eunuchs” weapons and subterfuges by an ever larger segment of the population, dissatisfied or frustrated by the systems that make such values ​​their banner, people to whom the “virile” authoritarianism and the open violence of authoritarian regimes will seem preferable. But it is likely that the regime of double truth of capitalist democracies is now too deep-rooted to allow them to take a firm stand, to seriously and frankly face their contradictions: and so we keep moving forward with our hypocritical and turbid double-truth regime as best we can, navigating and bombing on sight.) 


“Those things that you often represent to yourself in your thoughts, those same things will shape your mind. Your soul, in fact, is shaped by the images that form in it” (Marcus Aurelius, V, 16). This use of speech that I have defined as military shapes our souls and prepares them, or accommodates them, for war. 


It all started (or rather even more violently continued) during the defense against Covid. Do you remember? Our countries were at war against the virus and we had to mobilize en masse and arm ourselves to fight it. And the speech became a weapon among others (although perhaps not exactly among others: since it is an essential tool for the determination and orientation of public opinion) in order to ensure the non-desertion and the state of uninterrupted mobilization of the whole society. At the time of Covid it had already become very clear how speech returned to serve this purpose. And in times of emergency every form of perplexity, every hesitation, every slowdown with respect to the pace imposed by the state of exception, every effort aimed at isolating and highlighting a nuance, namely the very fact of doubting is highly suspect. Every attempt of the intelligence immediately falls under suspicion of intelligence with the enemy


For those of us who were cultivating another use of the speech, in the atmosphere of its militarization (and concomitant multiplication of chatter: because, with drones buzzing and bombs killing, turning up the volume of background chatter is good for thinking about something else, or rather, for not thinking) in such an atmosphere the most reasonable choice, perhaps the easiest and most coward, was silence. Λάθε βιώσας… live secretely, is a motto that we know well, traditionally applied to periods in which action and justice, even those that take place in the word, seem precluded.


By retaining our words we have never intended to withdraw and embrace the low mysticism of silence: aware of the fact that, while we are induced to remain silent, in addition to the chatter – or as administrators of the chatter – many other voices resonate loud and clear. But there is a limit to mental and physical forces, a limit to time, even just to those needed to clarify possible misunderstandings emerging from the act of entering into dialogue or controversy, especially if the feeling is that such misunderstandings are entertained – if not directly sown – in bad faith, so to fuel misunderstandings and exploit their effect on the public of readers or spectators. 


The aforementioned atmosphere sows misunderstandings everywhere. You are about to write. You feel the paper under your hands – a minefield. Every misunderstood word is a mine, every step forward would require infinite, exhausting, wearing precautions. Furthermore, the effect is not assured at all… and for the moment being you lack the forces to fight battles of ideals. And so you don’t move, you don’t write. You wait for your forces to return. And they return, little by little, even just by sharing a few words without ferocity, thanks to the providential listening of some friend, even just by expressing to them and sharing with them your feeling of impotence, this state of stunned and desperate confusion, for the moment, perhaps only for the moment… 



Franco Fortini (1917-1994)


As I was saying, if I do not choose to keep quiet (many wish me to) it is because, from two or ten lines written to prove to myself that I’m still alive – or, as has been said, to «prove to myself that I’m not worse than those I despise» – it may be that a future reader may be induced to get closer, rather than to other lines and words of their author, to the unsigned thoughts, to the ways of being and of considering the world and oneself, to which these lines allude as to a homeland.


F. Fortini, Extrema ratio




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Francesco Zevio

Co-founder of Cultura in Atto, he has published two books of poetry (Suite dei mondi and Liriche randagie) and two manuals for learning Latin and ancient Greek. He has studied and lived in Italy, Germany and France, where he currently lives, teaches and militates as an activist.



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